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L'ARTE RACCONTA
La Vecchiaia nell'Arte
Alcuni esempi di come l'arte figurativa ha trattato il tema della vecchiaia
Il 2020 ci ha portati a riflettere sulla nostra considerazione della fascia più anziana della popolazione e sulla sua fragilità fisica e sociale. Così, nella ricerca di un argomento per una nuova ricerca, la scelta è caduta sulla vecchiaia nell’arte. Nel trattare questo tema, sono stati adottati prevalentemente due criteri: il primo di tipo cronologico, mentre il secondo analizza i mutamenti stilistici nella produzione tarda degli artisti. In questo primo articolo è presente una carrellata di tappe della rappresentazione della vecchiaia nella storia.
LA VECCHIAIA COME SAGGEZZA
La rappresentazione della vecchiaia nell’antichità non ha prodotto un modello unilaterale, al contrario, ne ha elaborati molti tra venerazione, malinconia e vituperio e ha intrecciato idealizzazione, realismo e tono grottesco. Nei poemi omerici, ad esempio, la figura dell’anziano saggio (Nestore nell’Iliade) convive quella del vecchio sventurato (Laerte nell’Odissea). Il presunto ritratto di Omero, come quelli di Euripide, Socrate e Pitagora sono tra le raffigurazioni per eccellenza del “bell’anziano” (“kalòs géron”) la cui debilitazione fisica è compensata dalle virtù acquisite nel corso degli anni: la saggezza, l’esperienza e la capacità di andare al di là delle apparenze.
LA VECCHIAIA TRA MONDO GRECO E MONDO ROMANO
Nel mondo greco, la vecchiaia ha una posizione subalterna rispetto alla celebrazione dell’olimpica perfezione del giovane eroe. In età ellenistica conosce particolare fortuna la rappresentazione di donne anziane come megere, in cui la decadenza del corpo diventa specchio di decadenza morale. Nella Roma repubblicana, invece, la figura del “senex” è il fulcro del culto degli antenati, ricordati nei cortei funebri attraverso maschere che riproducono le fattezze del defunto (“imagines maiorum”) e che possono essere considerate come dei proto-ritratti. Il culto dell’antenato trova una sua icona nel “Togatus Barberini”, simbolo del ruolo etico e politico accordato agli anziani in questa fase della storia romana.
IL MEDIOEVO: LA VECCHIAIA COME DISTACCO DALLA DIMENSIONE TERRENA
La chiesa medievale promuove il modello del “buon vecchio” (senex bonus), esempio di vita sobria e devota in cui l’età avanzata è fonte di credibilità e saggezza. Le prime organizzazioni monastiche offrono agli anziani ricovero e assistenza e il modello ideale di vecchiaia punta sul riscatto del corpo, segnato dagli anni, attraverso propositi nobili di sobrietà, umiltà, devozione. L’iconografia dei 24 Vegliardi dell’Apocalisse di Giovanni è stata impiegata sin dal V secolo sull’arco trionfale delle basiliche paleocristiane e carolinge e in numerose bibbie miniate. Ma chi sono queste figure con le vesti bianche e le corone di alloro? Sono i 24 esseri divini che, secondo la mitologia babilonese e persiana, costituiscono la corte celeste? Sono le 24 classi sacerdotali che, secondo le Cronache, costituiscono i membri dell’organizzazione del culto? Sono l’unione delle 12 tribù di Israele e dei 12 apostoli? In ogni caso, essi sembrano rappresentare gli anziani come popolo di Dio per eccellenza, in una condizione ormai realizzata e distaccata dalla vita terrena.
IL MEDIOEVO: LA VECCHIAIA NEI CALENDARI MEDIEVALI
Fra le rappresentazioni più diffuse nel Medioevo, il ciclo dei Mesi si intreccia con la raffigurazione del lavoro dell’uomo: nei calendari il tempo è scandito dalle occupazioni stagionali, in una successione delle attività agricole alternate a periodi di riposo. La figura del Vecchio è solitamente associata al mese di Gennaio che, nel corso dei secoli, muta negli atteggiamenti e nelle attività a seconda dell’area geografica e dei dettami ecclesiastici. Intorno al XII secolo, ad esempio, si passa dall’uomo anziano e infreddolito all’anziano che si riscalda nell’intimità domestica acquisendo, successivamente, le fattezze del Giano bifronte di classica memoria, in riferimento al continuo scorrere dei cicli stagionali. Tale personificazione si farà sempre più dedita alla riflessione, assumendo l’austerità del vecchio sapiente. La raffigurazione della vecchiaia, così rappresentata nei portali di chiese e battisteri, è parte integrante della storia della salvezza, secondo la concezione provvidenziale dell’epoca.


LA FONTE DELLA GIOVINEZZA
Verso la fine del XIV secolo, la progressiva laicizzazione della vita porta in auge una nuova esaltazione della giovinezza e, nella letteratura provenzale dell’epoca, ricompare il mito della Fonte della Giovinezza. Esso è presente nella cultura classica, in quella orientale e in quella celtica. Secondo una leggenda di derivazione greca, la ninfa Juventa fu tramutata da Giove in una fontana le cui acque avevano il dono di restituire la giovinezza a chiunque vi si immergesse. Nel dipinto di Cranach assistiamo alla tipica iconografia del tema in cui la composizione è perfettamente scandita nel momento prima e dopo l’immersione miracolosa, con un evidente riflesso anche nel paesaggio.

LA VECCHIAIA NELL’ICONOLOGIA DI CESARE RIPA
L’“Iconologia” di Cesare Ripa (1593) è una vera e propria enciclopedia delle personificazioni allegoriche di concetti astratti “necessaria à Poeti, Pittori, et Scultori, per rappresentare le virtù, vitij, affetti et passioni humane”. Il tema dell’ultima età della vita è esplicitamente presente nelle rappresentazioni del Tempo, della Vecchiezza, del Pensiero, del Consiglio, del Giudizio, della Consuetudine e del Silenzio. Da notare come, mentre risultano pressoché assenti accezioni sfavorevoli dell’anziano maschile, alle donne anziane spettano concetti impietosi quali l’Accidia, l’Avarizia, l’Eresia, l’Invidia, la Malevolenza, l’Irresoluzione e la Superstizione. Ma vi sono anche le eccezioni in positivo come la Pazienza, l’Autorità, la Dottrina, la Longanimità e la Meditazione. Come di consueto, se le Virtù Teologali e Cardinali sono personificate da splendide giovani, i vizi contrapposti hanno le fattezze di vecchie arcigne e malevole.


VECCHIAIA E FISIOGNOMICA
Nella Firenze medicea, la rappresentazione grottesca della vecchiaia si evolve, grazie a Leonardo, in un’indagine del fenomeno fisiologico dell’invecchiamento. Alla ricerca sulla fenomenologia delle espressioni, nata attraverso il linguaggio caricaturale, Leonardo accosta il “moto degli affetti” ovvero il modo in cui le emozioni e le cause interiori entrano in gioco nella raffigurazione di ogni tipo di volto. È proprio la funzione “dimostrativa” del suo disegno e la versatilità nel descrivere i fenomeni naturali a farne uno strumento privilegiato d’indagine scientifica. Anche Dürer, che conosceva le ricerche leonardesche, esplorava la realtà con vocazione empirica, come mostra, tra gli altri, lo splendido studio del volto dell’anziana madre.



VECCHIAIA COME ALLEGORIA E AMMONIMENTO
La “Vecchia” delle Gallerie dell’Accademia di Venezia, come molti dipinti di Giorgione, ha una storia interpretativa travagliata e un’attribuzione non universalmente accettata. I principali indirizzi di ricerca che l’opera ha sollecitato sono, da una parte, l’aderenza al linguaggio pittorico “indagatore” di Leonardo e di Albrecht Dürer, dall’altra, il valore moralizzante ed esistenziale che fa di quest’immagine una sublime testimonianza di riflessione sul tema della “Vanitas”. Qui, l’ammonimento sulla caducità delle cose terrene è espresso con sincerità non caricaturale e conferisce profonda dignità al soggetto. D’altro canto, si noti come, suo malgrado, sia stata preferita una figura anziana di sesso femminile come emblema della decadenza del corpo.

IL GROTTESCO E LA VECCHIAIA EDIFICANTE
Bartolomeo Passarotti (1529-1592) è fra i primi sperimentatori della “pittura di genere” che, proprio sul finire del Cinquecento, faceva la sua comparsa nell’Italia settentrionale. Questa tipologia ha dei precedenti fiamminghi e conosce uno sviluppo indipendente nella pittura lombarda di cultura leonardesca. Il dipinto è ambientato nella Bologna del cardinale Gabriele Paleotti che, nel suo “Discorso intorno alle immagini sacre e profane” (1582), dedicava un intero capitolo a quelle che definiva “pitture ridicole”, intendendo censurare tutte quelle immagini “lascive”, per lo più a sfondo erotico e grottesco, che si stavano diffondendo nella pittura italiana. Per il Paleotti, modelli esemplari da proporre all’imitazione degli artisti, sono piuttosto le vecchie cieche di Annibale Carracci, considerate immagini edificanti, in linea con i dettami spirituali della Controriforma.


LA VECCHIAIA NEL SEICENTO OLANDESE
Nell’Olanda calvinista del XVII secolo, il duro lavoro domestico assume la connotazione di un rito sacro. La casa è l’ambiente in cui risiede la famiglia, la prima comunità dello stato. In questo contesto sono così frequenti le raffigurazioni di anziani, da aver indotto gli studiosi a parlare di “esplorazione di un’intera geografia del volto senile che assumeva l’aspetto di una topografia morale”. Alle “rughe della virtù” dell’anziana casalinga fanno da contrappunto le “rughe del vizio” di chi disperde futilmente la propria esistenza. L’intimità domestica diventa lo specchio del mondo e il luogo in cui si pratica la conoscenza empirica della natura. L’anziana di Maes consuma un pasto frugale e prega per l’ultima volta. Tutt’intorno a lei gli oggetti, indagati con scrupolosa attenzione, parlano dell’ingannevole e fugace scorrere dell’esistenza umana. L’anziana di Rembrandt, invece, non guarda il libro che le sta davanti ma lo assorbe attraverso il tatto, senso dell’esperienza pratica e di una più profonda comprensione dei fenomeni della realtà.


LA VECCHIAIA COME GENERE PITTORICO
Nel corso del Seicento, la rappresentazione della vecchiaia trova una sua formulazione più definita anche in Italia, soprattutto nell’area lombarda e veneta. Questo fenomeno costituisce un innesto di cultura nordeuropea, favorita dall’arrivo in Italia di autori influenzati da Rembrandt. Tra i principali esponenti di questa corrente, il veneto Pietro Bellotto (1625-1700) si specializza con successo nella pittura di anziani. Tali raffigurazioni, declinate in chiave popolaresca, risentono sì del tono grottesco della pittura di genere ma conferiscono al soggetto un’autonomia inedita e una rinnovata dignità.

LA VECCHIAIA AI MARGINI
Nel Settecento, emblematica è la produzione del milanese Giacomo Ceruti (1698-1767) detto il “Pitocchetto” (da “pitocco”, mendicante) il quale, figlio del naturalismo lombardo, ritrae con eguale dignità tutte le classi sociali, con particolare attenzione alla rappresentazione della povertà e dell’emarginazione sociale. La sintesi formale e l’assenza di retorica costituiscono una novità rispetto alla tradizione codificata della pittura a tema popolare. Ai vecchi, Ceruti riserva un ruolo da protagonisti e, attraverso l’individuazione fisionomica dei volti, diversifica i soggetti sottraendoli alla mimica caricaturale. La descrizione lucida del vero qualifica la sua pittura come precoce contributo alle idee più avanzate del nascente pensiero illuminista. In autori come Antonio Cifrondi (1656-1730), invece, il vecchio mendicante è metafora di inoperosità, assunta come richiamo moralistico contro il vizio.


LA VECCHIAIA COME VIRTUS
Con l’Illuminismo torna in auge la tipologia dell’anziano virtuoso, sinonimo di saggezza e fonte d’ispirazione per le giovani generazioni. In questo contesto, la rievocazione dell’antico è di primaria importanza come modello etico e formale di sobrietà e integrità morale. Così, la figura di filosofi quali Socrate e Seneca si presta perfettamente alle grandi figurazioni didascaliche dell’epoca. Il ruolo politico del filosofo moderno è implementato anche dalla circolazione di immagini che raffigurano gli stessi filosofi della modernità, primo fra tutti, Voltaire. Il vecchio è ora l’“olimpico sapiente” (il “savant”), ora l’eroe dal corpo dinoccolato e cadente.



VECCHIAIA E IMPEGNO SOCIALE
Nell’Ottocento, scienza medica e pittura realista sono due aspetti di un impegno di denuncia sociale. Gli intellettuali dell’ambiente milanese, pur animati da differenti idee e convinzioni politiche, svolgono un’attività di indagine documentaria nel sociale, campo di osservazione privilegiato. Il “dovere di cronaca” spinge artisti e letterati verso i quartieri popolari e le istituzioni assistenziali fiorite nel secolo precedente. Nell’“Elogio della vecchiaia”, il medico e antropologo Paolo Mantegazza auspica che in tutti i paesi civili vi siano ospizi per i vecchi poveri e ammalati e, allo stesso tempo, il confinamento degli anziani e le loro condizioni esistenziali diventano un tema vivo nella cultura europea. Liebermann mostra una dolorosa immagine di solitudine e tristezza nel cortile di un ospizio. Angelo Morbelli dedica invece una lunga riflessione alla vicenda umana degli anziani del Pio Albergo Trivulzio di Milano. Qui, l’autore realizza uno studio sistematico degli ambienti e degli spazi, servendosi dell’ausilio del mezzo fotografico.


VECCHIAIA E AVANGUARDIE
Nel Novecento, secolo delle avanguardie, la vecchiaia e le grandi questioni sociali della modernità passano prima di tutto attraverso il ripensamento del concetto stesso di espressione artistica. I vocaboli interni al mondo dell’arte diventano i mezzi attraverso i quali esprimere una visione del mondo che va al di là della rappresentazione tradizionale. Il Novecento è il secolo in cui quanto era stato detto sull’arte e sul suo approccio alla realtà viene messo talmente in discussione da scavalcare quasi completamente l’idea di un significato immediatamente riconoscibile. Così, per Picasso, la scelta di ritrarre l’anziano gallerista e mercante d’arte Ambroise Vollard diviene poco più che un espediente per rappresentare, attraverso la scompaginazione prospettica cubista, una visione rivoluzionaria del rapporto tra tempo e spazio.

LA VECCHIAIA E IL SENSO DEL TEMPO
L’artista polacco Roman Opalka ha dedicato il suo intero percorso creativo al dilemma dello scorrere del tempo. In nessuno come in quest’autore, la vecchiaia è trattata non in quanto tema a sé ma come naturale conseguenza del divenire umano, in una progressione che non ha soluzione di continuità. “La decisione di fotografare il mio volto proviene dalla necessità imperiosa di non perdere nulla della cattura del tempo. Il rigore che mi sono imposto mi obbliga a mantenere la stessa espressione e la stessa luce per ogni scatto. Solo questa può rendere visibile, in una fotografia dopo l’altra, tutti i segni del tempo che si accumulano sul mio viso. Le fotografie del mio volto sono l’immagine della vita di tutti quelli che le guardano.” (R. Opalka)

Bibliografia e Sitografia
- AA. VV., “La vecchiaia tra venerazione e discredito”, Erickson, Trento 2018
- F. Antonini, S. Magnolfi, “L’età dei capolavori”, Marsilio, Venezia 1991
- G. D’Apuzzo, “I segni del tempo. Metamorfosi della vecchiaia nell’arte dell’Occidente”, Compositori, Bologna 2006
- U. Eco, “Storia della bruttezza”, Bompiani, Milano 1994
- L. Pratesi, “Opalka 1965/1 – ∞”, Marsilio, Venezia 2011
- M. Schapiro, “L’Arte Moderna”, Einaudi, Torino 1986
- https://amedit.me/2014/03/31/una-vecchia-storia-storia-della-vecchiaia-dalla-grecia-arcaica-alla-tarda-antichita/