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Professione Perito d’Arte
I Falsi nell’Arte
Aneddoti e riflessioni sui falsi dal libro di Frank Arnau: Arte della Falsificazione. Falsificazione dell'arte.
IL LIBRO
Nel 1959 usciva il libro di Frank Arnau: Kunst der Fälscher – Fälscher der Kunst. 3000 Jahre Betrug mit Antiquitäten, nella versione italiana Arte della falsificazione, falsificazione dell’arte. Arnau, scrittore e giornalista tedesco di origine austriaca, era specializzato nel giallo e nella narrativa sul crimine e, affascinato dall’argomento, approfondì non solo la storia della falsificazione sin dall’antichità ma si documentò ampiamente sulle tecniche di falsificazione e invecchiamento dei materiali più utilizzate per il restauro e la falsificazione, con particolare attenzione ai più noti casi avvenuti tra Otto e Novecento in ambito mitteleuropeo.
Nel testo sono citate anche molte delle fonti a cui facevano riferimento gli artisti e le loro botteghe (e, dunque, anche i restauratori e i falsari). Si pensi al Manoscritto di Lucca, conosciuto come il più antico ricettario per colori (VIII secolo) sin ora pervenutoci, agli scritti del monaco Teofilo (XII secolo) o ancora, all’imprescindibile Libro dell’Arte di Cennini (fine XIV secolo).
Nell’ultima sezione del volume, tradotta con il titolo: A pesca nel mare dei falsi, l’autore riporta una serie di brevi aneddoti sull’argomento che, forse, ancora oggi in pochi conoscono. Vale la pena riproporne all’attenzione dei lettori interessati alcuni tra i più intriganti.
A PESCA NEL MARE DEI FALSI
«Il Mantegna fu ben presto così quotato che il suo nome comparve su molti dipinti. Fra le opere più celebri che entrarono nelle gallerie con il suo nome, vi furono perfino: L’Annunciazione di Francesco Cossa (Dresda), il San Giovanni nel Deserto di Giovanni di Paolo (Tours), la Meditazione (New York) e il Cristo (Berlino) del Carpaccio. Quest’ultimo recava la firma “Mantegna” già nel 1627.»
«Nel Cinquecento i quadri spettrali di Hieronymus Bosch raggiunsero prezzi così alti che il mercante di Anversa Hieronymus Cock, per soddisfare la richiesta, fece incidere su rame l’opera di Bruegel I pesci grandi mangiano i pesci piccoli e vi fece apporre la firma del Bosch con la data 1557. Questo “originale” ebbe un successo strepitoso. Ma poiché di lì a qualche anno le opere del Bruegel superarono in prezzo quelle del Bosch, fu apprestata una ristampa dell’incisione cockiana con la firma di Bruegel.»

«Subito dopo la morte del Greco fu compiuto un lavoro di spoglio per distinguere le opere interamente originali da quelle parzialmente originali. Sui lavori autentici fu applicata l’annotazione: “questo è originale”, come si può vedere anche sul retro della Cacciata dal Tempio. Questo perché il figlio del Greco aveva iniziato un grosso commercio con le opere lasciate in bottega dal padre. In una galleria viennese si scoprì che un’opera “del Greco” era falsa: lo dimostrava perfino la firma, che conteneva un errore.»

«Luca Giordano vendette come opera autentica del Dürer il suo dipinto Cristo guarisce lo storpio. Il collezionista cominciò a dubitare della sua autenticità e sollecitò nientemeno che il parere di… Luca Giordano in persona! Si venne a un processo e Luca mostrò con orgoglio ai giudici la propria firma nascosta in un punto del dipinto. La sentenza fu salomonica: l’imputato fu prosciolto perché, secondo i giudici, non si poteva punire Luca Giordano per il fatto che sapesse dipingere bene come il Dürer.»

«A Monaco, la mostra delle opere d’arte del palazzo Rohoncz, di proprietà del barone di Thyssen-Bornemisza, fu caratterizzata da un fatto sensazionale: la scoperta di una terza versione della Veduta di Delft di Vermeer. La sensazione scemò quando gli esperti appurarono che si trattava della ridipintura di un quadro del Settecento, fatta imitando lo stile di Vermeer e impiegando le sue tonalità gialle e azzurre. Altri esperti continuarono però a sostenere che l’opera fosse autentica.»

«Nelle opere di Van Dyck, i confini tra autentico e semiautentico, semifalso e falso sono così confusi che non è possibile stabilire il numero delle repliche dovute al maestro stesso e delle imitazioni dovute a falsari. I quadri del suo discepolo Pieter Lely, soprattutto nell’Ottocento, ebbero un buono smercio in Europa e negli USA, come originali di Van Dyck.»

«Nel novembre 1908 a Monaco si aprì un processo contro il pittore Gustav Thiege per spaccio di quadri falsi, così fu condannato a tre anni e sei mesi di carcere. Nel frattempo, però, i dipinti messi in commercio erano stati fatti passare per opere di Menzel, Leibl, Böcklin, Courbet e altri ed erano entrati in varie collezioni… Solo una parte di quei falsi poterono essere identificati con sicurezza e attualmente, chissà che non siano ancora considerati autentici.»

«Nel 1930 a Parigi il mercato cominciò a essere inondato da quadri di François Millet, il cui nome è legato soprattutto al celebre dipinto Angelus. Anche i quadri di Corot, Diaz, Degas e altri pittori molto quotati comparvero in numero sorprendente. Dopo lunghe indagini, la polizia riuscì ad arrestare Jean Charles Millet, un nipote del maestro che con la complicità di mercanti senza scrupoli aveva immesso sul mercato “capolavori” prodotti, in gran copia, dal pittore Caseau. Il giovane Millet si era dedicato all’attività del falsario nella speranza di saldare i debiti che aveva contratto. Nessuno sa quante di queste imitazioni siano ancor oggi accolte come originali nelle collezioni di tutto il mondo.»

«Nel 1944 furono esposti a Londra molti dipinti recanti la firma di Manet. Si trattava in parte di copie, in parte di imitazioni. Le opinioni erano estremamente discordanti sebbene anche i più volenterosi sostenitori dell’autenticità dovettero limitarsi a definirli lavori parziali di Manet, terminati da altri.»

«Nel 1910, in un processo per falsificazione di quadri, Maurice Vlaminck fu invitato a esprimersi sui vari lavori che recavano la sua firma ma che secondo l’accusa erano falsi. Egli dichiarò di non saper sempre dire con sicurezza se un quadro fosse suo oppure no. Alle obiezioni incredule del Pubblico Ministero, Vlaminck rispose confessando di avere un giorno dipinto, per scherzo, un quadro alla maniera di Cézanne; il quadro era poi stato messo in commercio con una firma falsa di Cézanne, e Cézanne aveva dichiarato che era opera propria.»

«La pittrice Claudine Latour, nota col nome di “Zezi du Mont Parnasse”, eseguiva falsi Picasso e Utrillo, in serie. Fu smascherata nel 1947. Suo committente era il ventiduenne Jacques Marisse, dal qual percepiva dai cento ai trecento franchi per ogni commissione. I quadri erano poi rivenduti a cifre che raggiungevano anche i 70.000 franchi. Utrillo, convocato in giudizio perché dichiarasse la falsità dei quadri, dovette ammettere di non saper riconoscere, in certi casi, se un lavoro fosse autentico o meno. Molti dipinti erano quasi certamente opere di Zezi: almeno così gli pareva…ma, diceva, “non è escluso che li abbia fatti io”.»

CONCLUSIONI
Probabilmente alcuni degli aneddoti raccolti da Arnau ci appaiono ormai datati, alcune storie saranno state smentite, altre ironicamente gonfiate dagli artisti stessi, tuttavia non si può non notare quanto ne risulti destabilizzato il concetto stesso di autenticità che abbiamo ereditato dalla mentalità positivista.
Ad esempio, la tendenza alla falsificazione intesa come “inganno percettivo” ha assunto, soprattutto agli albori dell’età moderna, una connotazione di virtuosismo tecnico concettualmente diversa dalle finalità economiche perseguite dai falsari veri e propri. Interessante (e allo stesso tempo “conturbante”) scoprire, inoltre, come le opere conservate nei musei possano, in rari casi, nascondere dei segreti di tale portata.
Bisogna considerare, tuttavia, che a fare la differenza nell’atto del falsificare è l’intento di dolo, come aveva ben espresso Cesare Brandi. A volte i confini tra le categorie della mente sono molto sottili: come definire dunque, le opere realizzate “a più mani” o quelle fortemente ritoccate? Come scovare la paternità di un’opera in casi limite come, ad esempio, quello di Utrillo o di Vlaminck?
Inoltre, è interessante notare quanto la questione delle attribuzioni e del riconoscimento stilistico sia condizionata dal gusto del tempo in cui i falsi vengono prodotti e fatti circolare: i falsi realizzati cinquant’anni fa ci appaiono oggi più facilmente identificabili perché il nostro occhio è temporalmente più lontano e distaccato. Inoltre, possediamo un maggior numero di strumenti e una notevole varietà di approcci che ci permettono di smascherare le contraffazioni con minor difficoltà. Tuttavia, non si è mai del tutto al riparo da questo fenomeno, soprattutto per quanto riguarda la produzione artistica del secondo Novecento: i materiali e le tecniche di sperimentazione, la forte componente concettuale e la scarsa trasparenza del mercato dell’arte contribuiscono ad agevolare la proliferazione e la circolazione di opere realizzate per ingannare i collezionisti meno avveduti.
Nei prossimi articoli per la rubrica Professione Perito d’Arte cercherò di affrontare l’argomento nelle sue molte sfaccettature. Per il momento, concludo con un brano estrapolato da un brillante saggio di Paolo D’Angelo (da Falsi, contraffazioni e finzioni in «Rivista di Estetica», n. 31, 2006):
Il problema è che per fondare l’appartenenza di falso e originale a due categorie diverse di produzione, sembra inevitabile fare riferimento a concetti piuttosto vaghi e imprecisi, tributari di un’idea dell’arte legata a epoche trascorse quali originalità, creatività, ispirazione. Possiamo però affermare che il nostro apprezzamento di un qualcosa è legato indissolubilmente al suo contesto questo rapporto è parte costitutiva del giudizio di valore che formuliamo. Così i molteplici imitatori potranno replicare le caratteristiche stilistiche ma non far sì che quelle assumano lo stesso significato espressivo che avevano del loro primo autore. A prescindere dai diversi gradi di intelligenza, penetrazione e “creatività” che si possono riscontrare nelle contraffazioni.