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CURATELA
Cascina Farsetti Art 2019
Focus sulle opere di François Fasnibay e Nina Šmídek.
In occasione dell’edizione 2019 di Cascina Farsetti Art, evento espositivo dedicato alla fotografia e alle sue contaminazioni curato dal Centro Sperimentale di Fotografia “CSF-Adams”,ho avuto l’onore e il piacere di redigere l’analisi critica delle opere di due brillanti autori, per certi versi agli antipodi: François Fasnibay e Nina Šmídek.
La ricerca di FasniBay è spiccatamente “fotografica” e non potrebbe essere altrimenti. S’intende, con questo, che, servendosi di un medium popolare quale la fotografia digitale e la sua manipolazione, essa coglie la dimensione più effimera dell’istantanea urbana e ne fa un caleidoscopio di stimoli visivi saturi di segni e colori. Un’istantanea, dunque, meditata in cui convivono l’estetica pop, lo stupore del kitch, una vaga eco di surrealismo “camp” e la capacità di attestare, con sottile ironia, un profondo senso di decadenza.
Ponendo al centro della propria ricerca le vetrine parigine di moda, l’autore ne rivela la vacua vivacità attraverso le pose e i teatrini dei mannequin, muti protagonisti di uno spettacolo sotto vetro. Tale microcosmo, fatto di luci e artefatti, pone questi corpi immobili e sinistri in relazione virtuale con il contesto monumentale urbano, suggerendoci con sgomento che, in un certo qual modo, la città appartiene a loro.
Osservando queste fotografie si viene colpiti da una provocazione ben congeniata che genera irritazione e un pizzico di vergogna: “tutto questo vorrebbe, dunque, solleticare il mio senso di appagamento e riconoscimento sociale?” La scelta estetica e concettuale di FasniBay opera un capovolgimento di senso: se le vetrine sono concepite in modo tale che il consumatore vi si proietti all’interno, cedendo ineluttabilmente al “sex-appeal dell’inorganico” (Perniola, 1993), il caos di impulsi propriamente retinici cui assistiamo esercita un’azione fortemente disturbante. Le sciabolate di luce-colore frustano letteralmente il nostro sguardo, provocando un senso di repulsione, un istintivo strizzare gli occhi e prendere le distanze per poter comprendere questi orgogliosi palinsesti di immagini prive di storia. I riflessi architettonici rammentano una gloria passata e, di fatto, costituiscono l’unica possibile fonte di razionalizzazione formale dello spazio fotografico. Eppure, a ben guardare, così imprigionati nell’horror vacui delle vetrine, i monumenti stessi diventano elementi “pop”. La loro fruizione, distratta e contingente, ne trasforma le possenti fattezze in quelle di modellini scenografici, violentate dai colori di una moda che, secondo Lotman, non è che “visibile incarnazione della novità immotivata”.

Le pitto-fotografie di Nina Smidek rievocano alcune intuizioni che sono alla base della cultura artistica a cavallo tra la fine dell’Otto e l’inizio del Novecento e riattualizzano il portato comunicativo di queste esperienze con intensità ed eleganza.
Dal punto di vista tecnico, la Smidek elabora un metodo lento e ricorsivo che prevede diversi passaggi. Innanzitutto quello (macro)fotografico, in cui la registrazione del dato naturalistico costituisce l’elemento di partenza, il leitmotiv estetico ed esistenziale intorno a cui ruotano i recenti progetti dell’autrice, governati da una sorta di “istinto biofilico”. In secondo luogo, la contaminazione pittorica eseguita su carta giapponese. La carta giapponese è realizzata lavorando le più disparate fibre vegetali locali (in questo caso si tratta di gelso da carta) con un esito al contempo tattile e traslucido.
L’applicazione di colore a olio sopra di essa permette un dialogo inedito tra gesto pittorico e registrazione fotografica in cui si perdono i confini modernisti tra le diverse pratiche e i contorni dei singoli elementi si dissolvono in favore di un continuum olistico. Inoltre, la presenza concettualmente osmotica della carta pone la “materia-natura” all’interno dello spessore dell’opera che diviene supporto e motivo estetico. Il formato quadrato smorza la componente narrativa in favorire di un’attenzione al dato ottico e materico dell’immagine e il risultato è un tessuto cromatico brulicante e vivo, dal forte potenziale immersivo. Questa ricchezza di elementi tecnici è essenziale per comprendere la risonanza estetica e percettiva di cui le opere della Smidek sono portatrici: da una parte si avverte l’eco dell’estetica contemplativa del giapponismo, come rottura dei canoni rappresentativi occidentali; dall’altra, non manca una certa riflessione sul rapporto tra soggetto e oggetto della visione.
Così, torna alla mente l’analisi di Giulio Carlo Argan della pittura post-impressionista di Pierre Bonnard, quando afferma che “la nozione dell’oggetto non è affatto il primo atto della coscienza” e cita un aneddoto in cui Marcel Proust chiama impression véritable quella di chi, al risveglio, vede fuori della finestra una striscia chiara e non sa ancora se sia mare o cielo eppure vive con intensità quell’ambiguità. Allo stesso modo è vitale l’esperienza di chi, provando una sensazione, non sa quanto essa dipenda dalla presenza della cosa che la provoca o da memorie, da associazioni mentali che si aggregano e sommano alla percezione diretta”.
